Stagione di transizione, processo di metamorfosi, inizio di una rifondazione. In diversi modi è stato definito l’avvicendamento Allegri - Sarri, attuato lo scorso giugno dalla società dopo un ciclo di cinque anni ricco di trofei vinti ed altri sfiorati. Come qualificare l’ingaggio del nuovo allenatore? Strategia pianificata o soluzione di ripiego? Questo non lo sapremo mai (o almeno, per ora) ma è necessario farci i conti. A lungo mi sono interrogato sui motivi di questa scelta, trovando diverse motivazioni, alcune più solide, altre meno convincenti. Riassumendo: - il ciclo di Allegri, dopo 5 anni, era da considerarsi concluso, e pertanto era giunto il momento di cambiare (in parte vero, perché la squadra vista sino a dicembre dello scorso anno dava l’idea di avere dei margini di dominio pazzeschi); - il mister Livornese chiedeva una mezza rivoluzione che, tuttavia, non era facilmente realizzabile vista la delicata situazione economica legata al budget per il mercato, al monte ingaggi, alla possibilità di fare un proficuo mercato in uscita (tutto vero, in termini di opportunità era più semplice e giustificabile cambiare guida tecnica, piuttosto che rivoluzionare l’organico); - la pressione dell’ambiente, desideroso di vedere un gioco diverso (attenzione, ho scritto “diverso” e non “migliore” appositamente, e spiegherò dopo il perchè, ndr) era talmente forte da costringere la dirigenza a fare un tentativo in tal senso (non voglio credere a questo scenario, ma la pulce nell’orecchio ce l’ho). Al netto di queste valutazioni, è oggettivo che un cambio così radicale della guida tecnica rappresenti una svolta verso una filosofia di calcio differente. Il nome di Maurizio Sarri ha innescato automaticamente nella mente del tifoso juventino l’aspettativa di vedere un calcio “diverso”. «Perché non “più bello”? Ti costa tanto dirlo, caro Andrea?» Sì. Mi costa. Perché rimango fermamente convinto della soggettività del concetto di bellezza. Il famoso “bel gioco” di cui molti parlano, non può essere definito universalmente. Per alcuni sarà fatto di pressing a tutto campo, di possesso palla continuo, di scambi stretti e di “dominio”. Per me, in tutta sincerità, è bella una diagonale fatta nel modo giusto, un uno contro uno vinto in difesa o in attacco, un contropiede veloce gestito magistralmente, un semplicissimo uno-due tra le punte (non ne vedo uno dalla notte dei tempi, ndr) la sensazione di non prendere gol anche se si giocasse per due giorni, i movimenti coordinati della difesa e così via. Tutto il contrario di tutto, insomma. Per questo mi pare semplicistico ragionare per etichette. Altro discorso, invece, è guardare all’attitudine storica di una squadra, al suo DNA. Ci sono squadre che sono cambiate nel tempo, ma ve ne sono altre che, storicamente, mantengono una propria identità ben definita. E quale esempio migliore della Juventus Football Club? Una compagine che, da sempre, è conosciuta in Europa e nel mondo per caratteristiche ben determinate: solidissima, di temperamento, e arcigna come poche. Chi di voi non ha visto il famoso spezzone dell’intervista a Gary Neville in cui, al termine della propria partita di ritorno degli ottavi di finale, domanda al cronista a bordo campo «Juventus qualified?» Ecco, la sua espressione dopo aver ricevuto risposta affermativa è lo specchio di cosa pensano da sempre gli avversari della Juve.
Queste caratteristiche , ad avviso di chi scrive, sono determinate da una serie di fattori comuni che hanno caratterizzato sistematicamente le più forti Juventus viste negli anni.
Il blocco degli italiani. Le migliori formazioni che ricordo si fondavano su un nutrito gruppo di calciatori italiani, alcuni talentuosi, altri magari non funambolici ma di grande carisma e determinazione. Si pensi a Scirea, Cabrini, Tardelli, Rossi, Brio (metà anni ’80); a Torricelli, Di Livio, Vierchowod, Baggio, Vialli, Ravanelli (primi ’90); Del Piero, Inzaghi, Ferrara, Conte, Tacchinardi (fine ’90); Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Marchisio (manco a dirlo). E non sto elencando il blocco Juve che portò l’Italia a vincere il mondiale 2006.
Purtroppo, questa caratteristica è venuta meno nella Juventus di oggi, a causa della crisi del movimento calcistico italiano e del processo di internazionalizzazione intrapreso, ed è uno degli elementi che, a mio avviso, giustifica la poca unità di intenti e la scarsa determinazione mostrata in certi frangenti.
Per intenderci, quando parlo di unità di intenti, mi riferisco a questo:
Il bilanciamento tra giocatori solidi, e giocatori talentuosi. Le squadre più convincenti, vuoi per caso oppure no (ma credo poco al caso, ndr), avevano un rapporto molto simile tra giocatori solidi o di grande temperamento, e giocatori prevalentemente di talento. Gli elenchi di cui sopra sono abbastanza indicativi. Paradossalmente, le squadre formate per lo più da giocatori più leziosi o talentuosi, sono quelle che hanno convinto un po’ meno. Si pensi, per esempio alla corazzata di Fabio Capello degli anni 2004/2006 oppure, ahinoi, alla Juve vista negli ultimi due/tre anni. Grandissimi nomi, minore determinazione.
Questo a riprova del fatto che le squadre si costruiscono non solo mettendo insieme il maggior numero di fenomeni possibili. Servono determinati equilibri, a volte dati da giocatori meno reclamizzati, ma sicuramente più utili al progetto.
La fede nella sostanza. Checché se ne dica, negli anni passati di professori alla Sacchi in casa Juventus ne sono passati davvero pochi. Tolto Maifredi (proprio lui, quello del calcio champagne), e forse in parte Ancelotti, gli altri tecnici che si sono alternati sono sempre stati famosi per il loro pragmatismo, e la capacità di badare alla sostanza, più che alla forma. L’elenco sintetizzerà meglio il concetto: Trapattoni, Lippi, Capello, Conte, Allegri. Tutti grandi allenatori, tutti estremamente pragmatici e di grande personalità, per usare un eufemismo.
Alla fine di questa breve analisi, il quesito viene spontaneo: se la Vecchia Signora ha avuto sempre determinate caratteristiche, e ha fatto scelte sempre votate al mantenimento di un determinato “modo di essere”, è giusto prendere la via impervia della rivoluzione?
Non sarebbe più semplice continuare sulle orme dei gloriosi predecessori?
Una domanda a cui è difficilissimo rispondere. Di fronte alla rivoluzione il mio lato nostalgico, insieme a quello pragmatico, griderebbe vendetta imbracciando la maglia di soldatino Di Livio. Ma il calcio va avanti, si evolve, cambia alla velocità della luce, e barricarsi sulla rocca della propria tradizione potrebbe essere a sua volta un errore.
Il dato di fatto è che la Juventus di oggi è completamente diversa da quelle citate sopra: è zeppa di giocatori considerati molto tecnici e di talento, a scapito di giocatori più di garra, ed ha scelto un allenatore che crede in un modello di gioco molto lontano dalla storia della Vecchia Signora. In ragione di questa diversità, e in virtù del momento storico, potrebbe aver senso percorrere la via del cambiamento.
Per un cambiamento così radicale, tuttavia, ci vuole tempo. Non insegni alla Juventus a fare il Barcellona dal giorno alla notte.
Solo il tempo ci dirà se tutto ciò sia possibile, o se siamo di fronte ad una tappa obbligata per ricordarci chi siamo veramente.
Vi dirò di più. Per quanto gira in fretta il mondo del pallone, potrebbe non esserci abbastanza tempo per vedere il finale di questa storia.
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