(di Elia Robino)
“Torino mi è sembrata arretrata di decenni in termini di integrazione. Mi sono stancata di entrare nei negozi e sentirmi come se il proprietario si aspettasse che potessi rubare qualcosa. Tante volte arrivi all’aeroporto di Torino e i cani ti fiutano come se fossi Pablo Escobar. Non ho sofferto episodi di razzismo in campionato, ma in Italia e nel calcio italiano il problema esiste, ed è la risposta che mi preoccupa veramente, dai presidenti ai tifosi del calcio maschile che sembrano vederlo come una parte della cultura del tifo.”
Eniola Aluko, attaccante inglese di origini nigeriane con questo duro virgolettato dà l’addio alla Juventus e all’Italia. Una parentesi breve ma vincente, quella dell’attaccante britannica che, dopo aver vinto tutto quello che poteva vincere nei campi del Belpaese decide di tornare nella sua patria sbattendo la porta. Partiamo dall'unica nota positiva del suo comunicato. La Aluko ammette di non aver subito episodi di razzismo sui campi di calcio mentre militava nelle JWomen.
Questo fa ben sperare. Basta uscire dalle curve e dagli ambienti “maschi” per far cessare il problema razzismo rendendo - se non nulle almeno marginali - certe realtà e situazioni. Ennesima dimostrazione che, questa cultura può non essere parte del gioco del pallone e che essa - con la giusta educazione e rigorose punizioni - può essere completamente eradicata. In questo senso va anche il comunicato delle squadre della Lega Serie A che non più di qualche giorno fa hanno finalmente messo nero su bianco il loro impegno nel combattere il razzismo dilagante durante le loro manifestazioni sportive. Qui finiscono le cose positive e cominciano quelle negative.
La Aluko infatti accusa duramente il popolo del capoluogo sabaudo di essere stato ingeneroso e diffidente nei suoi confronti, recandole fastidio e malessere. La situazione sociale non aiuta. Se la signora Aluko ha seguito l’attualità negli anni, sa che insieme ad atti di razzismo ci sono storie di inclusione che non si possono nascondere. La nostra è una storia di accoglienza, sfruttata politicamente e malgestita, che ha creato un po’ in tutte le città italiane gruppi più o meno grandi di ragazzi e ragazze di minoranze etniche che vagano di qua e di là senza arte né parte, bloccati in un limbo da un sistema che gli impedisce di elevarsi dalla loro condizione. Eppure, alla signora Aluko sarebbe bastato guardare un po’ oltre al suo naso per vedere che nel sottobosco torinese oltre a queste situazioni ci sono innumerevoli esempi di buona integrazione, da decine e decine di empori di cittadini del Bangladesh ai ragazzi di colore che lavorano nei supermercati o nelle grandi stazioni ferroviarie oltre a tutti gli stranieri che studiano con profitto nelle nostre università. Chiudo dicendo che non ci si può aspettare di capire Torino e i torinesi in un solo anno della propria vita.
Qui si vive sotto le montagne, è tutto più ovattato e lento, fa freddo e magari qualche volta può anche capitare che parta qualche sguardo truce. Non si è veloci e spigliati come i vicini milanesi ma neanche lo si vuole essere: volerci bene e conoscerci non è facile. Ci vuole impegno. E come tutte le cose nelle quali bisogna mettere impegno alla fine si scopre che son più belle delle altre, quelle facili.
Buon ritorno a casa Eniola, un abbraccio.
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