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Immagine del redattoreElia Robino

Di Fiat Duna e comunismo: la storia dello Zar che avrebbe dovuto sostituire le Roi



È il 1988 e il mondo è ancora saldamente diviso nel bipolarismo venutosi a creare dopo la fine della seconda guerra mondiale: blocco occidentale da una parte, Unione Sovietica e paesi socialisti dall’altra.


È il 1988 e la Juventus è orfana di Platini, Le Roi si è infatti ritirato alla fine della stagione precedente a soli trentadue anni: le sue caviglie non reggevano più i carichi del calcio professionistico, era venuto il momento di appendere gli scarpini al chiodo.


Boniperti è alla ricerca del sostituto, di un colpo di livello che possa riempire il vuoto che lascia un calciatore da tempo in decadenza ma comunque simbolo di un’epoca di grandi vittorie per la squadra bianconera.


La scelta ricade su un giocatore di ventisette anni che gioca al di là della cortina di ferro, un fantasista che si era messo in mostra negli europei appena conclusi, Aleksandr Zavarov.


La trattativa



La trattativa per portare Zavarov alla corte di Mister Zoff non fu solo difficile ma anche quantomeno bizzarra.


Nel 1988 l’Italia era già un paese compiutamente liberale e capitalista e per quanto la sentenza Bosman non avesse ancora dato completa forza contrattuale a calciatori e procuratori, il calciomercato avveniva in maniera non dissimile da oggi, con scambio di

denaro tra la squadra cedente e quella acquirente e le trattative contrattuali con il calciatore.


In Unione Sovietica non era così. Gli sportivi erano tutti stipendiati dal Ministero dello Sport, che, in un certo senso, ne deteneva il cartellino.


Boniperti e Agnelli si trovano dunque a trattare non con una società sportiva ma con un apparato governativo per accappararsi il talento della Dinamo Kiev e della nazionale sovietica.


Ne esce fuori un’operazione da cinque milioni di dollari: due vanno alla Dinamo, due al ministero dello sport e uno direttamente allo Stato sovietico.


Ma le ingerenze dell’URSS nei confronti di Zavarov non finiscono qui: l’ingaggio del calciatore infatti va in toto al governo sovietico che tramite il PCUS farà avere alla stella della nazionale solo due milioni di lire al mese, nemmeno duemila euro odierni.


L’ambientamento



Non un ingaggio da nababbo insomma, anzi, una somma chiaramente bassa anche per un calciatore della sua epoca.


Meno male che c’è la Juve a non farmi mancare niente” dirà ai giornalisti.


Anche abitazione e automobile sono forniti dalla società torinese: l’appartamento è quello dell’altra meteora bianconera, Ian Rush e il mezzo di locomozione è una FIAT Duna, anch’essa secondo la leggenda appartenuta l’anno prima al centravanti gallese.


Aleksandr non eredita solo alloggio e mezzo di locomozione di Rush ma anche la maglia e il peso delle aspettative di Michel Platini.


Il numero 10 sulle spalle sarà grande fardello per l’ucraino che l’anno dopo vedrà come una liberazione sia il cambio di sponsor – non più quell’Ariston che campeggiava anche sulla maglia di Michel – che il passaggio al 9, suo storico numero di maglia nei club e in nazionale.


Anche lo shock culturale non aiuta: le difficoltà con la lingua accompagneranno tutta l’avventura italiana di Zavarov, e lo stile di vita occidentale, per un ragazzo che aveva passato tutta la sua giovinezza sotto il regime sovietico – che per altri sarebbe stato visto come una liberazione – per lui viene vissuto come un elemento estraneo e alieno.


Di carattere introverso e sensibile, mal sopporterà in tutta la sua avventura bianconera le ingerenze della stampa, che dopo l’entusiasmo iniziale non sarà mai tenera con il fantasista.


L’avventura bianconera


Zavarov giocherà 76 partite segnando 13 gol nelle due stagioni che passerà all’ombra della mole, aggiungendo al suo palmarés sia la Coppa Italia che la Coppa UEFA nella stagione 1989-1990 senza però incidere se non come comprimario.


Mai entrato nel cuore dei tifosi verrà considerato dai contemporanei come il peggiore numero 10 della storia della Juventus fino a quel momento.


Ma è davvero giusto il giudizio?


Sì e no. Zavarov ci mise chiaramente del suo con i problemi di ambientamento e la malinconia per il regimo sovietico ma è anche vero che si trovò in mezzo ad una Juventus pienamente a fino ciclo.


Eravamo noi gli scarsi, non lui” dirà il suo ex compagno di squadra Pasquale Bruno. E in fondo proprio tutto questo bidone non poteva essere un calciatore arrivato alla Juventus già maturo, e che in patria giocava in una vera e propria schiaccasassi come la Dinamo Kiev.


Anche le caratteristiche del calciatore non aiutavano: non abbastanza aerobico e cinico per essere un centravanti, non abbastanza strutturato per disegnare calcio e assestare colpi negli stinchi come mediano, ruolo nel quale Zoff si intestardì spesso a farlo giocare.


Insomma, era un trequartista in una squadra che non aveva né le capacità, né a volte la volontà di mettere al centro del progetto le sue innegabili capacità tecniche, paragonate in patria dal suo ex allenatore Valeri Lobanovski – icona del calcio sovietica e della Dinamo – a quelle di Diego Armando Maradona.


Post Juventus


Dopo la Juventus il calciatore verrà ceduto al Nancy – ironicamente la squadra con cui esordì Platini – prima di finire la carriera nelle serie minori francesi nelle quali allenerà anche per circa un decennio.

La carriera di allenatore di Zarov finisce nel 2016, quando cessa il suo rapporto di collaborazione tecnica con la nazionale Ucraina.


Il Donbass


Le ultime apparizioni nella cronaca di Zavarov risalgono al 2015 quando rifiuta la chiamata alle armi della sua nazione nella guerra del Donbass, dichiarando di non volere prendere le armi per combattere contro i separatisti in Ucraina orientale.


Zavarov è infatti originario della città di Luhans'k la quale dà il nome anche all’omonimo Oblast, tra i protagonisti della rivolta del 2014, e dice pubblicamente di rifiutarsi di puntare le armi contro la terra dei suoi avi e dove vivono i suoi famigliari, preferendo la pace.


Non era la prima volta che Zavarov chiedeva la pace. Lo faceva già a fine anni 80, a Torino, quando di fronte a un giornalista che gli chiedeva quella fosse il suo sogno nel cassetto rispondeva in russo “mir”, la pace.


Dispiace dovere prendere atto che per lui, Luhans'k e l’Ucraina, questo desiderio sia ancora lontano dal realizzarsi.

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